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Sergio Camporesi
Dal Cannone al Cavalletto
Dal cannone al cavalletto
DAL CANNONE AL CAVALLETTO- LA PRIGIONIA COME TIROCINIO ARTISTICO E CULTURALE
La guerra in Libia
Sergio Camporesi viene inviato in Libia nell’autunno del 1941 come Sottotenente, dopo essere stato nel giugno 1940 sul fronte occidentale in Piemonte nella guerra contro la Francia, già in ginocchio per l’invasione nazista. Ha ventisei anni ed è contemporaneamente iscritto come studente universitario all’Istituto di Lingue orientali di Napoli. Come risulta dalle lettere inviate alla famiglia dal fronte del Nord Africa, pensa di ottenere qualche licenza di studio per sostenere gli esami. La guerra è inizialmente vissuta come una avventura quasi “turistica”, se non fosse per la repentina consapevolezza della disorganizzazione e dell’impreparazione bellica dell’esercito italiano. Ma i primi scontri con l’esercito inglese dissolveranno presto l’illusione di una veloce vittoria. Quattro mesi dopo la disfatta dell’esercito dell’Asse ad El-Alamein viene fatto prigioniero in Tunisia dalle truppe neozelandesi nella grande battaglia di El Hamma il 22 marzo 1943. Inizia il travaglio della prigionia e degli spostamenti da un campo di concentramento all’altro fino all’arrivo in Egitto. La frustrazione per le sconfitte incrina l’intero orizzonte formativo di un giovane cresciuto ed educato dalla macchina propagandistica del fascismo e da una cultura estetizzante tardo-romantica e dannunziana. Sempre dalle lettere indirizzate ai genitori dal fronte africano si desume una preoccupazione costante, una vera propria ossessione: i libri. Non c’è missiva che non faccia riferimento alla custodia dei suoi libri a Forlì o alla pressante richiesta di invio di nuovi titoli.
La Tenda degli Artisti a Hélouan (o Helwan)
Con la prigionia ha inizio una progressiva revisione dei propri riferimenti valoriali e culturali, grazie anche all’incontro con altri intellettuali internati. Secondo la testimonianza del compagno di prigionia Stenio Scardino, verso la fine di luglio 1943, dopo lo spostamento di campo da Geneifa sul Mar Rosso a quello di Hélouan sul Nilo, a 30 km a sud del Cairo, un gruppo di artisti non professionisti ottiene dal comando inglese una grande tenda dove lavorare e abitare: un architetto, un perito edile, un maestro elementare, un insegnante di lettere (Scardino) e Sergio, maestro di scherma. Lavorano individualmente, ma si aiutano e commentano assieme gli esiti artistici raggiunti da ciascuno. Questa specie di apprendimento cooperativo dà i primi risultati, e il gruppo incomincia ad avere una certa notorietà all’interno del campo. Dal comando inglese presto arrivano matite, acquerelli, colori ad olio e pennelli. Camporesi scrive al padre l’8 luglio 1943: “Ho trovato dei bravi amici con i quali mi diverto, ragiono d’arte, letteratura e disegno così dimentico i reticolati che mi chiudono. In questo nuovo campo ci è consentito ascoltare alla radio il bollettino italiano”. Sicuramente è Radio Cairo che trasmetteva messaggi e bollettini di guerra in italiano, e la voce è di Fausta Cialente scrittrice italiana antifascista, a cui il comando inglese ha affidato le trasmissioni radiofoniche destinate anche ai soldati italiani prigionieri (cfr. Maria Serena Palieri, “Radio Cairo- L’avventurosa vita di Fausta Cialente in Egitto”, Donzelli, 2018). L’11 agosto scrive ancora al padre: “Lavoro dalla mattina alla sera disegnando. Mi sto proprio specializzando in certi rami di pubblicità sotto la guida di un architetto molto bravo e molto conosciuto a Milano”.
Nel gennaio del 1944 c’è la prima mostra personale di disegni in una tenda prestata dal medico del campo e allestita dall’ing. Carlo Brizzolara (futuro dirigente della Olivetti e della rivista “Il Cembalo scrivano”): “Ho avuto un piccolo successo perché sono piaciuti molto e, data la richiesta dei colleghi, ne ho dovuti vendere molti”, scrive il 20 gennaio 1944. Il 16 marzo scrive al padre: “Sto preparando delle illustrazioni per un romanzo scritto da un mio collega”. E il 18 maggio dice ancora: “In queste due mostre d’arte ho ottenuto un discreto successo e non tra il grosso pubblico, ma tra le poche persone di gusto sicuro (…)Tu stesso ti meraviglieresti molto vedendo questi miei ultimi lavori e non troveresti più il “pittorello” dei paesaggi d’una volta. Però mi accorgo di essere molto indietro e di aver bisogno di molto studio, tanto che a volte mi scoraggio vedendo quanta strada debbo ancora fare per accontentare un pochino, non gli altri, ma me stesso, che è quel che più importa.”
Lavorare per il Welfare Art Studio del Cairo 1944-1945
“(…) dalla fine d’agosto con altri quattro miei colleghi siamo venuti in un quartiere del Cairo a lavorare per la R.A.F. Dipingiamo grandi quadri decorativi che verranno messi nelle mense inglesi. Naturalmente è migliorato lo stipendio, il vitto e l’alloggio. A giorni poi andremo ad abitare in una palazzina dove c’è anche lo studio e così finalmente dopo quattro anni tornerò ad abitare in una casa!
Questo genere di lavoro mi piace molto perché mi fa passare piacevolmente il tempo e mi aiuta a perfezionarmi sempre più in quest’arte che ormai sono deciso a non abbandonare mai più. Libertà per ora non ce n’è, pazienza, un giorno verrà anche questa!” Così scrive alla madre l’11 novembre 1944.
A partire da agosto, quindi, i tre amici Sergio, Stenio Scardino e Pier Carlo Camparada iniziano a lavorare come pittori e disegnatori per il Welfare Art Studio della Royal Air Force del Cairo, prima in studi ricavati in un grande appartamento in Midani Ismailia, proprio di fronte al Museo Egizio, poi nel quartiere residenziale di Heliopolis in una villa. Da un giornale inglese, The Egyptian Gazette dell’8 ottobre 1944, sappiamo che sono diciassette i prigionieri italiani impiegati come artisti dalla R.A.F. Si lavora otto ore al giorno, assieme ad alcuni giovani pittori inglesi, ad un ritmo molto veloce per produrre grandi quadri, spesso a carattere storico, da inviare nelle mense e nei circoli ufficiali dell’Impero britannico. Nello stesso atelier di Sergio lavora anche il nipote di Aristide Sartorio, il decoratore di Montecitorio, e il pittore Aldo Cimberle di Torino. C’è abbondanza di materiale, pennelli colori etc., ma come tele vengono utilizzati i tessuti dei palloni aerostatici antiaerei dismessi.
A Sergio, coadiuvato da Scardino, viene affidato, dal tenente Lambert (che organizza il lavoro di tutti laboratori), il compito di produrre una natura morta in formato gigante, almeno dieci metri quadri, da eseguire nella sede di Radio Cairo e da impiegare in una scenografia per il relativo teatro. Il tenente Lambert è molto interessato alla produzione pittorica privata di Sergio e trattiene per sé alcuni paesaggi e nature morte. Accompagnato sempre dal tenente inglese, Sergio esce dalla villa diverse volte per andare in una piscina riservata agli ufficiali inglesi o per procurasi costosi libri d’arte presso la libreria James Cattan &Co. ubicata al 10 di Rue Maghraby. Sergio possedeva anche diversi libri spediti dall’Italia il più curioso dei quali è quello di Jean Cocteau, “Orfeo - Tragedia in un atto ed un intervallo”, Edizioni di Pattuglia, Forlì, maggio 1943. Il volume era edito da “Pattuglia”, rivista della Gioventù Universitaria Fascista con sede a Forlì e diretta dal giovane Walter Ronchi, che aveva raccolto intorno al periodico mensile alcuni futuri grandi intellettuali italiani del dopoguerra (da Italo Calvino a Paolo Grassi e Giorgio Strehler). E’abbastanza singolare che la censura inglese abbia permesso di far arrivare ad un prigioniero di guerra una pubblicazione di una rivista dichiaratamente fascista, anche se da una posizione di fronda. Si può comprendere, quindi, la grande differenza fra le condizioni di prigionia nel Nord Africa inglese e quelle che caratterizzano i campi di concentramento in Europa. Come ha scritto Edeo De Vincentiis, anche lui prigioniero di guerra in Egitto, “Una differenza che nei rapporti interpersonali e nelle decisioni vitali si caratterizza e si chiama democrazia.” La detenzione, che una volta Sergio definì “nella bambagia”, mostrò ai soldati italiani che un altro modo di convivenza politica era possibile. In ogni caso la condizione di reclusione lascia molto tempo per il pensiero, per i ricordi, per la rielaborazione e progettazione della propria esistenza, e mette in primo piano la necessità della cultura come primo passo verso la libertà, dopo tanta violenza e indottrinamento ideologico. Le condizioni di detenzione fanno crescere prepotentemente il bisogno di ripensare il mondo, persino nelle situazioni di estrema precarietà dell’esistenza. Nel libro “Proust a Grjazovec” del critico e pittore polacco Josef Czapski ne troviamo un esempio eclatante. Si tratta della trascrizione delle conferenze su Proust che Czapski tenne in un campo di concentramento sovietico per ufficiali polacchi. E’ straordinario come, in una situazione di detenzione durissima come il gulag, questi ufficiali avessero organizzato conferenze di letteratura, arte, scienza senza il supporto di libri, carta e penna, ma facendo affidamento solamente sulla propria memoria. Sergio, che si trova in una realtà incomparabilmente più confortevole, sopperisce alla mancanza di libri di poesia trascrivendo a matita in un fragile taccuino, una ampia e improbabile antologia che mette insieme D’Annunzio e Sandro Penna, sulla base della memoria collettiva degli abitanti della Tenda degli Artisti. Nel dicembre 1945, rimpatriato per le condizioni di salute, appena sbarcato a Taranto, acquista, in un negozio di barbiere, come un bene impellente e indispensabile, le “Poesie” di Vincenzo Cardarelli, edite da Mondadori nel 1942.
Ora è assolutamente deciso a non abbandonare la pittura, ma con la consapevolezza del percorso solitario e accidentato che si accinge a seguire:
“I miei progressi nella pittura sono sempre molto sensibili e gli ultimi due o tre quadri fatti sono buoni, ma non mi faccio illusioni circa l’accoglienza che mi sarà fatta nell’ambiente artistico italiano, domani, e tanto meno sull’accoglienza del pubblico. Avrò dalla media cultura molti fischi, perché non sono le mie pitture piacevoli, ma selvagge, e non solleticano la pigrizia mentale degli imbecilli. E ne sono contento.“(lettera alla madre 16 marzo 1945)
La guerra e i suoi disastri, per parafrasare il ciclo di Goya, continueranno per cinquant’anni, ad affacciarsi nella pittura di Sergio Camporesi, nella forma dei fantasmi di Hitler e di Mussolini che sbucano dalla specchiera liberty della madre Venusta, oppure nella violenza esercitata dal potere costituto o nella aggressività “carnevalesca” del terrorismo italiano degli anni ’70. Come scrisse di lui Leonardo Cremonini, la pittura diventa allora, come nelle immagini degli interni del suo studio, “cerimonia privata dove utopicamente l’uomo resiste alla violenza del consumo, alla tecnocrazia mascherata da avanguardismo.”
F.C.