Mio padre pittore per caso
Mio padre, si sa, non amava allestire mostre e non amava le celebrazioni. Questa manifestazione potrebbe essere quindi considerata un atto contro la sua volontà, una imposizione. Però, storicista e fatalista, era ben consapevole della crudeltà della storia. In un certo senso l'esposizione e la divulgazione di gran parte dei beni culturali sono una violazione della volontà di chi ci ha preceduto: esporre i tesori di una tomba etrusca o pubblicare le lettere di Leopardi sono di fatto delle profanazioni della privacy.

Ma questa non è l'unica considerazione che mi ha convinto a dare l'assenso alla mostra. Pur essendosi costruito una immagine narcisistica di "pittore per caso", era ben cosciente della qualità della sua pittura, forse nata per caso, ma perseguita con caparbia ostinazione per più di cinquant’anni. C'era una strana inversione semantica nel suo linguaggio familiare: se diceva, rivolto a mia madre, «vado a lavorare», significava "vado a dipingere"; non avrebbe mai usato la parola "lavoro" per l'insegnamento a scuola, l'impegno pomeridiano della scherma o quello estivo al Circolo Nautico del Savio. Il "lavoro" era quello che si svolgeva nella solitudine del suo studio, nel guardarsi allo specchio delle proprie tele, in quel continuo fare i conti con la propria vita che era per lui dipingere, nel raccontarsi storie, nel faticare a perseguire una attività slegata da scopi o doveri sociali. L'appuntamento con sé stesso nello studio era tanto più vincolante quanto più privo di significato economico-sociale.

Nonostante ciò la sua pittura è tutt'altro che un cifrario criptico personale. Un imperativo guida nella tessitura cromatica era la ricerca dell'equilibrio e del piacere visivo, un "piacere per gli occhi".

I suoi quadri quindi sono intrinsecamente "espositivi", nascono per darsi allo sguardo dello spettatore. È una pittura che, cresciuta della privatezza, vuol essere vista, goduta, ma non giudicata, non paragonata ad altro che a se stessa. È una pittura talvolta esclusiva, che non accetta facilmente la vicinanza di altre opere anche dello stesso autore, che ha bisogno di spazio, di aria, che mal sopporta le stesse cornici.

Ora questi quadri pretendono i loro diritti: proporsi ad altri sguardi e vivere senza più la dolce gelosia dell'autore.
Ho cominciato a conoscere mio padre e ad apprezzare anche il suo lavoro di pittore, tardi, verso l'adolescenza. Nell'infanzia ammiravo il suo dinamismo, ma anche temevo quest'uomo alto, elegante, dai baffi folti, che stava poco in casa e che raramente giocava con i figli. Non era molto paziente con noi bambini, ma quando ci parlava ci trattava da grandi ed era molto protettivo se stavamo poco bene. Anche i suoi quadri appesi alle pareti di casa non si prestavano ad essere amati dall'infanzia: colori freddi e scuri, figure femminili poco seducenti e aggraziate, paesaggi con i profili delle montagne non sufficientemente realistici, si trasformavano, nella percezione fisiognomica infantile, in spaventosi coccodrilli con le scaglie irte. Pur abitando poco la casa, mio padre aveva la capacità di connotare gli ambienti in cui viveva in modo tale che se ne avvertiva continuamente la presenza. Le sue passioni e i suoi interessi erano così tanti e vari che non c'era giorno in cui non portasse a casa qualcosa: libri, dischi, attrezzi per la pipa, riviste sportive e d'arte, manifesti, manuali d'ogni genere, ma anche oggetti per la casa, per il campeggio, piatti da appendere, piccoli soprammobili, modellini di automobili, conchiglie, attrezzi per il bricolage, ferramenta per la nautica, materiale fotografico. Il suo eclettismo era rigorosissimo: appena un interesse lo coglieva, dalla pipa all’allevamento del cane lupo, ad un'ulteriore specialità sportiva da introdurre a scuola, si perdeva a capofitto nella novità. Non erano passatempi. Mio padre non aveva hobby, parola che del resto detestava, ma l'irrefrenabile curiosità per tutto ciò che rafforzava la sua individualità, le peculiarità del proprio io. Per usare una parola a lui molto cara, era onnivoro. Aveva una passione speciale per i film western. Era una festa andare al cinema con lui. Amava la sfacciata finzione della violenza e la mitologia dei personaggi western. Si divertiva perciò ad anticipare o a smascherare scazzottate, ammazzamenti, cadute spettacolari, pistolettate varie condite con "sugo di pomodoro". Il movimento fisico era per lui fondamentale, il corpo era una "macchina" da rispettare e da curare quotidianamente. Ovviamente amava di più gli sport individuali rispetto a quelli di squadra e ha educato molte generazioni di giovani verso l'attività fisica con finalità non agonistiche. A noi figli ha insegnato a nuotare, a tirare di scherma, a sciare, a navigare a vela, ma forse con molta severità e una intransigenza maggiore rispetto agli altri allievi. Con l'adolescenza sono riuscito a farmi notare e apprezzare da questo padre così importante. Il luogo di reciproca scoperta erano le conversazioni a tavola all'ora di pranzo e di cena. Accettava le provocazioni adolescenziali prima di mio fratello e poi mie. Gli piaceva discutere dell'attualità e di problemi esistenziali, di estetica e di politica. Ammirava il lucido rigore geometrico dei ragionamenti giovanili, che si sposavano bene con un suo moralismo di fondo, col suo anticonformismo e individualismo. La sua istintiva diffidenza verso il progresso tecnologico, lo scientismo e il mondo dei consumi di massa, trovava alcuni punti di contatto con i contenuti gridati dalla dissidenza studentesca. La sua pittura intanto era mutata: i paesaggi erano grandi marine dai colori brillanti, l'olio aveva ceduto il posto alle tempere "Flasche", i quadri con figure riecheggiavano Bacon e Cremonini, la scuola romana era ormai lontana, lasciando intravedere ancora le sue tracce nel disegno. Incominciai allora ad apprezzare i dipinti di mio padre, che nel frattempo aveva trasferito il suo studio dalla vecchia e romantica soffitta di via Maceri alla nuovissima mansarda di via Bricè.

Iniziai a seguirlo più spesso nelle visite a musei ed esposizioni, e non più soltanto alla Biennale veneziana, che era sempre stata una vera festa di famiglia con quello scambio di divertite battute con mia madre e mio fratello sulle bizzarrie dell'arte pop e concettuale. Mi colpiva la grande selettività del suo sguardo, che si soffermava su poche opere e rifiutava di fare "scorpacciate visive". Ricordo che nella primavera del 1977 lo accompagnai a Venezia al solo scopo di vedere al Museo Correr Due dame veneziane del Carpaccio, per scrutarne i particolari sullo sfondo (secondo un suggerimento di C. L. Ragghianti), e per rivedere a Ca' Pesaro la celebre bagnante di Bonnard. Già, Bonnard. Questo pittore credo che abbia operato lentamente e in profondità sul suo modo di vedere le cose (la cromia più calda, la rivisitazione dell’impressionismo). Certamente ha permesso di far entrare le figure femminili nel suo studio, ambientandole fra gli oggetti e i mobili che quotidianamente aveva sott'occhio. E così la barriera edipica fra padre e figlio diminuiva, diventava meno acuta. Finalmente queste donne vestite succintamente non erano più solo una pericolosa mescolanza di pudore, invidia, e denuncia moralistica; occupando molto più spazio, essendo più attraenti, diventavano paradossalmente ai miei occhi meno imbarazzanti e più pittoriche. Ora c'era più libertà, dove invece la deformazione mi era sembrata un mal celato tentativo di sconfiggere, di disprezzare ciò che non si osava guardare fino in fondo. Ma forse mi sbagliavo, forse era una proiezione della mia gelosia di figlio. Con la fine degli anni 70 c'è un nuovo irrompere della cronaca nei disegni e nelle tele: il terrorismo, la P38, i gambizzati, gli espropri proletari, l'assassinio di Aldo Moro. Dopo una prima divertita curiosità per il linguaggio monellesco degli "indiani metropolitani" (ricordo che andò a fotografare i graffiti di via Zamboni a Bologna molto prima che diventassero ' arte", quotidiana accademia), vide nei comportamenti della nuova rivolta un ulteriore sintomo del malcostume italico, una disonestà sfacciata e impunita che nella sua mente si imparentava con l'infatuazione bellicosa che trascinò l'Italia in guerra (L'apocalisse nel retrovisore). Nell'autunno del 1978 questo ciclo di opere incentrate sulla P38 fu esposto alla Galleria Trifalco di Roma, complice Stelio Martini, con un sorprendente successo di pubblico e di vendite. Ricordo una giovane coppia che, avendo visto un'opera dalla vetrina, entrò risolutamente per acquistarla senza nemmeno informarsi del costo. Stupito e divertito da questo inatteso interesse del pubblico, si lasciò convincere per qualche tempo ad esporre ancora lontano da casa. Ma allestire mostre fuori dalla propria città era troppo faticoso e talvolta rischioso, come quando riuscì appena in tempo a recuperare alcune sue opere che un mercante-avventuriero stava spedendo a New York con un viaggio di sola andata. Del resto, non si illudeva di "sfondare" alla sua età. Così né di ultimi dieci anni espose con una certa regolarità solo a Forlì e a Cesena. Una buona parte delle recenti tele sono esterni: il giardino di casa com'era e com'è, il vecchio albicocco che spandeva, generoso, le sue fronde per tutto il quadro, e poi, quasi un ritorno al passato, il paesaggio aperto, con le colline di Bertinoro viste da Scardavilla. Un'immagine che, fotografata mille volte nelle diverse situazioni meteorologiche e stagionali, gli era diventata così familiare da accettare la sfida delle difficoltà connesse con questo vecchio e inesauribile tema di pittura.

Ora la magia si è interrotta; la creatività che aleggiava dalla mansarda sul mio appartamento, la curiosità, l'attesa, le sorprese che riservavano a me le frequenti visite nel suo studio sono terminate.

Rimane, per me, più viva delle altre, sul cavalletto una tela, un interno, che stava, come era suo costume frequente, completamente rimaneggiando: aveva quasi eliminato il rosso del pavimento per sostituirlo con una scoppiettante gamma di gialli. Il giallo che io non riuscivo ancora a vedere nelle foglie del nocciolo di casa e che lui si ostinava ad indicarmi l'ultima volta che si è affacciato alla finestra per guardare, a metà aprile, quell’ infinita riserva visiva che era il giardino domestico.


Lido di Classe, 28 agosto 1995                                                                                                                    

Franco Camporesi

Dal catalogo: Sergio Camporesi – Pitture e disegni, 1944- 1995, Forlì, Grafiche MDM, gennaio 1996, pp.9-12
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